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Teoricamente dovremo essere in grado di comprendere cosa necessiti delle nostre attenzioni, in qualsiasi campo.
Se parliamo di territorio e paesaggio dovremo ancora di più sapere cosa va tutelato e cosa può essere - in nome del benessere sociale - "sacrificato" [passatemi il termine].
È vero che molto spesso comprendiamo queste cose, ma è altrettanto vero che non sappiamo in che modo certi elementi debbano essere tutelati e difesi.
Parlando di beni culturali e paesaggistici, la legislazione italiana impone delle tutele che molto, troppo spesso, si risolvono nella delimitazione di una buffer zone intorno al bene da tutelare dentro la quale non è possibile intervenire in nessun modo, a meno che non si tratti di restauro e recupero fisico del bene in questione.
Ma molto spesso anche i restauri, senza un'adeguata contestualizzazione del bene all'interno del paesaggio storico e di quello contemporaneo, rimangono fini a loro stessi, bene o mal riusciti che siano.
Gli interventi di pianificazione (all'interno dei quali sono previsti anche i restauri e le tutele), oggi non possono più permettersi il lusso di ignorare le reali dinamiche che hanno, nel tempo, generato e mosso il paesaggio agrario. Proprio in virtù della dinamicità stessa che caratterizza il paesaggio, infatti, un intervento che tende alla staticità come una tutela sarebbe - almeno concettualmente - fuori luogo (tuttavia, anche nella pratica, sappiamo che la tutela vincolistica non ha mai realmente tutelato un bene, piuttosto lo ha solamente isolato dalle dinamiche che gli erano proprie).
Forse - a monte delle grandi pianificazioni - oggi diventa necessario domandarsi quale sia, realmente, il valore sociale degli elementi di paesaggio (dai boschi, ai campi coltivati ai monumenti). Perché alcuni di essi sono considerati così tanto inutili da meritarsi immense distese di pale eoliche o pannelli fotovoltaici, oppure - entrando nel dettaglio del singolo monumento - scale in metallo o mattoni bianchi e che cambiano il loro aspetto in maniera irreversibile concorrendo ancora di più a una completa decontestualizzazione e a un distaccamento dal paesaggio stesso della struttura o del complesso da tutelare.
La risposta che viene subito a galla è che semplicemente, a livello sociale, non esiste una reale coscienza del ruolo che questi elementi giocano nel paesaggio; come forte conseguenza all'influenza di scuole di pensiero che ci hanno abituato a identificare il paesaggio con la natura vergine, oggi diventa, per noi, difficile riuscire a inquadrare i "beni culturali e del paesaggio" all'interno del paesaggio stesso e cioè nel loro reale contesto. Diventa altrettanto difficile capire che funzione essi avevano nel momento della loro attività.
Per chiarire, non possiamo pretendere di comprendere l'importanza di una torre difensiva aragonese senza comprendere la sua funzione nel complesso di tutte le torri difensive che sono state edificate sulle coste sarde durante il dominio spagnolo. Lo stesso vale per i nuraghi o i castelli dei giudici; non possiamo permetterci di considerare questi monumenti isolati su loro stessi senza una relazione con il territorio, con il paesaggio attuale (del quale oltretutto sono elementi fortemente caratterizzanti) e soprattutto con il paesaggio storico, all'interno del quale erano stati concepiti e costruiti e ricoprivano una funzione di veri punti di riferimento.
Considerare un santuario campestre come un qualcosa di esterno al paesaggio agrario e pastorale equivale esattamente a considerare l'Empire State Building come estraneo alle dinamiche urbane di New York.
Solo comprendendo le relazioni tra presenza archeologica e paesaggio circostante possiamo capire realmente quanto vale questo o quel monumento.
Ancora un altro esempio, se si considera un menhir solo come una pietra verticale non ci si deve stupire del fatto che a fianco ci si potrebbe trovare un pannello fotovoltaico installato in nome della produzione sostenibile di energia. Se invece si considera il menhir come il segnale di uno spazio pubblico relativo a un mondo produttivo agro pastorale allora si inizia a valutare l'ipotesi che la conservazione e il restauro di questo bene deve essere finalizzato quantomeno alla restituzione del bene alla struttura di paesaggio nel quale era stato concepito (per quanto sia possibile al giorno d'oggi).
D'altronde oggi la norma recita: «La Regione riconosce i caratteri, le tipologie, le forme e gli innumerevoli punti di vista del paesaggio sardo, costituito dalle interazioni di naturalità, della storia e della cultura delle popolazioni locali, intese come elementi fondamentali per lo sviluppo, ne disciplina la tutela e ne promuove la valorizzazione attraverso il Piano Paesaggistico Regionale»[1].
Tuttavia la norma si ferma a una tutela che riguarda l'impatto visivo del bene definendo delle aree all'interno delle quali non è possibile intervenire. Delle volte - forse troppo spesso - la tutela applicata come zona di protezione intoccabile diventa un metodo per isolare il monumento e lasciarlo completamente estraneo al contesto e alle dinamiche territoriali circostanti.
Diventa necessario comprendere, invece, quali siano quegli elementi che, pur trovandosi all'esterno dell'area di impatto visivo del bene, ne costituiscono una parte importante, se non fondamentale per la sua percezione esatta nel contesto.
Questi fattori possono essere rappresentati da una strada, un antico sentiero (i percorsi di transumanza per esempio) o possono essere persino identificati da un uso del suolo che ha sempre avuto una forte relazione con il bene e che adesso è in continua scomparsa (pascoli o coltivazioni cerealicole, utilizzi della terra che hanno un grande impatto sul paesaggio); non si può, quindi, pretendere di comprendere il benese non si cerca di comprendere tutto l'intorno.
Per concludere, la contestualizzazione dei "beni culturali e del paesaggio" svolge, quindi, un ruolo determinante per il territorio, per la sua identità e per il paesaggio in quanto elementi fondamentali di riferimento relativi alle attività passate dell'uomo.
La Sardegna trova questi elementi in ogni angolo del suo territorio e ogni giorno ci troviamo di fronte a tutele mancate o aggirate; sono pochi i casi in cui ci troviamo di fronte a iniziative che "lavorano nella norma, per migliorare la norma"[2] dando indirizzi di tutela che si muovono oltre le sterili buffer zone imposte dal PPR, in modo da non restituire agli osservatori contemporanei un fermo immagine di un rudere, ma una percezione di un territorio abitato, vissuto, lavorato da diverse comunità e in continuo movimento ancora oggi.
©R-Urbanlab_Sardigna
[1] Riferimento al PPR, art. 1, Parte 1, Titolo 1.
[2] Giovanni Azzena, Francesca Bua, Roberto Busonera, Consuelo Cossu,
Elisabetta Garau, Lisa Meloni, Federico Nurra, Il caso Tresnuraghes
Se parliamo di territorio e paesaggio dovremo ancora di più sapere cosa va tutelato e cosa può essere - in nome del benessere sociale - "sacrificato" [passatemi il termine].
È vero che molto spesso comprendiamo queste cose, ma è altrettanto vero che non sappiamo in che modo certi elementi debbano essere tutelati e difesi.
Parlando di beni culturali e paesaggistici, la legislazione italiana impone delle tutele che molto, troppo spesso, si risolvono nella delimitazione di una buffer zone intorno al bene da tutelare dentro la quale non è possibile intervenire in nessun modo, a meno che non si tratti di restauro e recupero fisico del bene in questione.
Ma molto spesso anche i restauri, senza un'adeguata contestualizzazione del bene all'interno del paesaggio storico e di quello contemporaneo, rimangono fini a loro stessi, bene o mal riusciti che siano.
Gli interventi di pianificazione (all'interno dei quali sono previsti anche i restauri e le tutele), oggi non possono più permettersi il lusso di ignorare le reali dinamiche che hanno, nel tempo, generato e mosso il paesaggio agrario. Proprio in virtù della dinamicità stessa che caratterizza il paesaggio, infatti, un intervento che tende alla staticità come una tutela sarebbe - almeno concettualmente - fuori luogo (tuttavia, anche nella pratica, sappiamo che la tutela vincolistica non ha mai realmente tutelato un bene, piuttosto lo ha solamente isolato dalle dinamiche che gli erano proprie).
Forse - a monte delle grandi pianificazioni - oggi diventa necessario domandarsi quale sia, realmente, il valore sociale degli elementi di paesaggio (dai boschi, ai campi coltivati ai monumenti). Perché alcuni di essi sono considerati così tanto inutili da meritarsi immense distese di pale eoliche o pannelli fotovoltaici, oppure - entrando nel dettaglio del singolo monumento - scale in metallo o mattoni bianchi e che cambiano il loro aspetto in maniera irreversibile concorrendo ancora di più a una completa decontestualizzazione e a un distaccamento dal paesaggio stesso della struttura o del complesso da tutelare.
La risposta che viene subito a galla è che semplicemente, a livello sociale, non esiste una reale coscienza del ruolo che questi elementi giocano nel paesaggio; come forte conseguenza all'influenza di scuole di pensiero che ci hanno abituato a identificare il paesaggio con la natura vergine, oggi diventa, per noi, difficile riuscire a inquadrare i "beni culturali e del paesaggio" all'interno del paesaggio stesso e cioè nel loro reale contesto. Diventa altrettanto difficile capire che funzione essi avevano nel momento della loro attività.
Per chiarire, non possiamo pretendere di comprendere l'importanza di una torre difensiva aragonese senza comprendere la sua funzione nel complesso di tutte le torri difensive che sono state edificate sulle coste sarde durante il dominio spagnolo. Lo stesso vale per i nuraghi o i castelli dei giudici; non possiamo permetterci di considerare questi monumenti isolati su loro stessi senza una relazione con il territorio, con il paesaggio attuale (del quale oltretutto sono elementi fortemente caratterizzanti) e soprattutto con il paesaggio storico, all'interno del quale erano stati concepiti e costruiti e ricoprivano una funzione di veri punti di riferimento.
Considerare un santuario campestre come un qualcosa di esterno al paesaggio agrario e pastorale equivale esattamente a considerare l'Empire State Building come estraneo alle dinamiche urbane di New York.
Solo comprendendo le relazioni tra presenza archeologica e paesaggio circostante possiamo capire realmente quanto vale questo o quel monumento.
Ancora un altro esempio, se si considera un menhir solo come una pietra verticale non ci si deve stupire del fatto che a fianco ci si potrebbe trovare un pannello fotovoltaico installato in nome della produzione sostenibile di energia. Se invece si considera il menhir come il segnale di uno spazio pubblico relativo a un mondo produttivo agro pastorale allora si inizia a valutare l'ipotesi che la conservazione e il restauro di questo bene deve essere finalizzato quantomeno alla restituzione del bene alla struttura di paesaggio nel quale era stato concepito (per quanto sia possibile al giorno d'oggi).
D'altronde oggi la norma recita: «La Regione riconosce i caratteri, le tipologie, le forme e gli innumerevoli punti di vista del paesaggio sardo, costituito dalle interazioni di naturalità, della storia e della cultura delle popolazioni locali, intese come elementi fondamentali per lo sviluppo, ne disciplina la tutela e ne promuove la valorizzazione attraverso il Piano Paesaggistico Regionale»[1].
Tuttavia la norma si ferma a una tutela che riguarda l'impatto visivo del bene definendo delle aree all'interno delle quali non è possibile intervenire. Delle volte - forse troppo spesso - la tutela applicata come zona di protezione intoccabile diventa un metodo per isolare il monumento e lasciarlo completamente estraneo al contesto e alle dinamiche territoriali circostanti.
Diventa necessario comprendere, invece, quali siano quegli elementi che, pur trovandosi all'esterno dell'area di impatto visivo del bene, ne costituiscono una parte importante, se non fondamentale per la sua percezione esatta nel contesto.
Questi fattori possono essere rappresentati da una strada, un antico sentiero (i percorsi di transumanza per esempio) o possono essere persino identificati da un uso del suolo che ha sempre avuto una forte relazione con il bene e che adesso è in continua scomparsa (pascoli o coltivazioni cerealicole, utilizzi della terra che hanno un grande impatto sul paesaggio); non si può, quindi, pretendere di comprendere il benese non si cerca di comprendere tutto l'intorno.
Per concludere, la contestualizzazione dei "beni culturali e del paesaggio" svolge, quindi, un ruolo determinante per il territorio, per la sua identità e per il paesaggio in quanto elementi fondamentali di riferimento relativi alle attività passate dell'uomo.
La Sardegna trova questi elementi in ogni angolo del suo territorio e ogni giorno ci troviamo di fronte a tutele mancate o aggirate; sono pochi i casi in cui ci troviamo di fronte a iniziative che "lavorano nella norma, per migliorare la norma"[2] dando indirizzi di tutela che si muovono oltre le sterili buffer zone imposte dal PPR, in modo da non restituire agli osservatori contemporanei un fermo immagine di un rudere, ma una percezione di un territorio abitato, vissuto, lavorato da diverse comunità e in continuo movimento ancora oggi.
©R-Urbanlab_Sardigna
[1] Riferimento al PPR, art. 1, Parte 1, Titolo 1.
[2] Giovanni Azzena, Francesca Bua, Roberto Busonera, Consuelo Cossu,
Elisabetta Garau, Lisa Meloni, Federico Nurra, Il caso Tresnuraghes