Le TV ci inondano con le scadenze dell'Expo del 2015 che si terrà a Milano, un avvenimento importante, senza dubbio, con grandi significati economici per la città, il paese, l'Europa, il mondo.
A parte che non crediamo che la Sardegna possa trovare vantaggi da un Expo che si svolgerà altrove, non è delle ricadute economiche di questa gigantesca manifestazione che vogliamo curarci, ma in realtà, è tanto interessante il suo tema. Un servizio del 01/05/14 sulla Rai parlava infatti del problema alimentare e delle soluzioni alla sostenibilità alimentare che si intendono proporre all'interno dell'Expo, durante tutta la sua durata. Un tema complesso, forte, che si intende affrontare a livello mondiale. Il tema, in buona sostanza, è quello della ricerca di metodi per la sostenibilità alimentare del mondo intero - quello stesso mondo che oggi consuma in 8 mesi quello che la terra produce in 12 -.
Ma un tema del genere non poteva non catturare la nostra attenzione riguardo alla sostenibilità alimentare della Sardegna. La prima domanda che bisognerebbe porsi sarebbe, infatti, se prima di controllare la sostenibilità degli altri, non sia il caso di guardarsi in casa.
A giudicare dalle norme vigenti in materia di produzioni alimentari, guidate dalla mano economicamente onnipotente della PAC, la sostenibilità alimentare non è sicuramente un'eccellenza italiana e, per una diretta conseguenza, neanche sarda.
Oggi la Sardegna è costretta a importare una quota che gira intorno al 80% del cibo consumato, un sistema estremamente insostenibile che trova le sue basi in poche ma significative leggi che hanno messo a soqquadro le produzioni sarde e, conseguentemente, il paesaggio agrario che le aveva generate nel corso della storia.
Partendo da lontano, quindi, dai fatti più visibili di attualità, vogliamo andare a capire perché nel nostro spazio rurale - uno spazio fondamentale per i sardi e la Sardegna, quello economicamente e socialmente più significativo - tutto è lecito, perché abbiamo norme fuori contesto che permettono tutto tranne le cose più normali e adeguate: le produzioni.
Per analizzare alla base i problemi dello spazio rurale della Sardegna bisognerebbe partire da molto lontano, si potrebbe fare un excursus che parte dal sistema di produzione agricola giudicale passando per le dominazioni straniere, ma, in questo momento, si intende solamente analizzare gli effetti visibili di leggi e norme più vicine a noi per andare a vedere come sia possibile che qualsiasi intervento proposto possa essere considerato lecito all'interno di un territorio come il nostro.
Partiamo, dunque, dal 1974, anno del secondo piano di rinascita che incorporava al suo interno il Piano di riforma dell'assetto agro-pastorale della Sardegna. Inutile stare a discutere sul carattere paternalistico di questo piano (totalmente democristiano), ma è invece molto più utile constatare quali effetti si siano riscontrati sul paesaggio sardo e sulle produzioni. La legge sulla riforma agro-pastorale[1] - figlia, peraltro, di una commissione parlamentare che ha gettato fango sulla società pastorale sarda - trovò misure che, in maniere articolate e complesse, ridussero gli spazi di produzione, resero i pascoli estensivi degli allevamenti intesivi, promossero coltivazioni estranee, lontane dal fabbisogno alimentare delle popolazioni e portarono, progressivamente a una contrazione dello spazio del lavoro dei pastori e dei contadini. Gli effetti che questa legge esercitò sul territorio e il paesaggio agrario della Sardegna furono, nel lungo periodo, un progressivo abbandono di pascoli (soprattutto quelli montani, stagionali) e campi coltivati.
A sopperire alla mancanza di produzione alimentare interna alla Sardegna, però, ci pensarono le norme comunitarie europee che introdussero il cibo dell'Unione Europea all'interno di un unico circuito di mercato unificando le produzioni. Le norme economiche ebbero l'effetto di mettere i terreni sardi in competizione con quelli del nord Europa (caratterizzati da rese agricole di gran lunga superiori), questo non fece altro che mettere la Sardegna sempre in condizioni di acquirente e quasi mai in condizione di venditrice di prodotti.
Da queste norme, adesso, bisogna partire per comprendere lo spazio rurale della Sardegna, e purtroppo bisogna anche comprendere perché parchi eolici selvaggi e distese di fotovoltaico siano opere considerate degne di essere valutate e approvate quando vengono proposte all'interno del nostro spazio rurale.
Forse, la risposta dovrebbe essere ricercata nel fatto che, oggi, gli spazi in cui giornalmente si vuole intervenire con opere enormi e impattanti non sono più produttivi come un tempo. Perdendo la produttività, i pascoli montani diventano la preda preferita degli eco-speculatori; i campi un tempo coltivati con i cereali oggi diventano distese di serre (vuote) coperte da pannelli fotovoltaici.
La non-produzione a cui la Sardegna si è dovuta abituare nel corso del Novecento oggi ci presenta il conto sotto forma di un paesaggio stravolto, lontano dalle sue dinamiche storiche e minacciato da progetti che pretendono di compromettere aree storicamente produttive.
Perdendo le produzioni perderemo prima il paesaggio, poi il territorio.
Se le produzioni non riprenderanno il loro posto, in maniera sostenibile come è sempre avvenuto (e come vogliono, pare, gli organizzatori dell'Expo), gestendo intere foreste e interi pascoli, coltivando valli per produrre un cibo che oggi importiamo, potremo continuare a vivere in una terra dove nulla è rurale, tutto è lecito.
[1] legge 24 giugno 1974, n. 268
©R-Urbanlab_Sardigna
A parte che non crediamo che la Sardegna possa trovare vantaggi da un Expo che si svolgerà altrove, non è delle ricadute economiche di questa gigantesca manifestazione che vogliamo curarci, ma in realtà, è tanto interessante il suo tema. Un servizio del 01/05/14 sulla Rai parlava infatti del problema alimentare e delle soluzioni alla sostenibilità alimentare che si intendono proporre all'interno dell'Expo, durante tutta la sua durata. Un tema complesso, forte, che si intende affrontare a livello mondiale. Il tema, in buona sostanza, è quello della ricerca di metodi per la sostenibilità alimentare del mondo intero - quello stesso mondo che oggi consuma in 8 mesi quello che la terra produce in 12 -.
Ma un tema del genere non poteva non catturare la nostra attenzione riguardo alla sostenibilità alimentare della Sardegna. La prima domanda che bisognerebbe porsi sarebbe, infatti, se prima di controllare la sostenibilità degli altri, non sia il caso di guardarsi in casa.
A giudicare dalle norme vigenti in materia di produzioni alimentari, guidate dalla mano economicamente onnipotente della PAC, la sostenibilità alimentare non è sicuramente un'eccellenza italiana e, per una diretta conseguenza, neanche sarda.
Oggi la Sardegna è costretta a importare una quota che gira intorno al 80% del cibo consumato, un sistema estremamente insostenibile che trova le sue basi in poche ma significative leggi che hanno messo a soqquadro le produzioni sarde e, conseguentemente, il paesaggio agrario che le aveva generate nel corso della storia.
Partendo da lontano, quindi, dai fatti più visibili di attualità, vogliamo andare a capire perché nel nostro spazio rurale - uno spazio fondamentale per i sardi e la Sardegna, quello economicamente e socialmente più significativo - tutto è lecito, perché abbiamo norme fuori contesto che permettono tutto tranne le cose più normali e adeguate: le produzioni.
Per analizzare alla base i problemi dello spazio rurale della Sardegna bisognerebbe partire da molto lontano, si potrebbe fare un excursus che parte dal sistema di produzione agricola giudicale passando per le dominazioni straniere, ma, in questo momento, si intende solamente analizzare gli effetti visibili di leggi e norme più vicine a noi per andare a vedere come sia possibile che qualsiasi intervento proposto possa essere considerato lecito all'interno di un territorio come il nostro.
Partiamo, dunque, dal 1974, anno del secondo piano di rinascita che incorporava al suo interno il Piano di riforma dell'assetto agro-pastorale della Sardegna. Inutile stare a discutere sul carattere paternalistico di questo piano (totalmente democristiano), ma è invece molto più utile constatare quali effetti si siano riscontrati sul paesaggio sardo e sulle produzioni. La legge sulla riforma agro-pastorale[1] - figlia, peraltro, di una commissione parlamentare che ha gettato fango sulla società pastorale sarda - trovò misure che, in maniere articolate e complesse, ridussero gli spazi di produzione, resero i pascoli estensivi degli allevamenti intesivi, promossero coltivazioni estranee, lontane dal fabbisogno alimentare delle popolazioni e portarono, progressivamente a una contrazione dello spazio del lavoro dei pastori e dei contadini. Gli effetti che questa legge esercitò sul territorio e il paesaggio agrario della Sardegna furono, nel lungo periodo, un progressivo abbandono di pascoli (soprattutto quelli montani, stagionali) e campi coltivati.
A sopperire alla mancanza di produzione alimentare interna alla Sardegna, però, ci pensarono le norme comunitarie europee che introdussero il cibo dell'Unione Europea all'interno di un unico circuito di mercato unificando le produzioni. Le norme economiche ebbero l'effetto di mettere i terreni sardi in competizione con quelli del nord Europa (caratterizzati da rese agricole di gran lunga superiori), questo non fece altro che mettere la Sardegna sempre in condizioni di acquirente e quasi mai in condizione di venditrice di prodotti.
Da queste norme, adesso, bisogna partire per comprendere lo spazio rurale della Sardegna, e purtroppo bisogna anche comprendere perché parchi eolici selvaggi e distese di fotovoltaico siano opere considerate degne di essere valutate e approvate quando vengono proposte all'interno del nostro spazio rurale.
Forse, la risposta dovrebbe essere ricercata nel fatto che, oggi, gli spazi in cui giornalmente si vuole intervenire con opere enormi e impattanti non sono più produttivi come un tempo. Perdendo la produttività, i pascoli montani diventano la preda preferita degli eco-speculatori; i campi un tempo coltivati con i cereali oggi diventano distese di serre (vuote) coperte da pannelli fotovoltaici.
La non-produzione a cui la Sardegna si è dovuta abituare nel corso del Novecento oggi ci presenta il conto sotto forma di un paesaggio stravolto, lontano dalle sue dinamiche storiche e minacciato da progetti che pretendono di compromettere aree storicamente produttive.
Perdendo le produzioni perderemo prima il paesaggio, poi il territorio.
Se le produzioni non riprenderanno il loro posto, in maniera sostenibile come è sempre avvenuto (e come vogliono, pare, gli organizzatori dell'Expo), gestendo intere foreste e interi pascoli, coltivando valli per produrre un cibo che oggi importiamo, potremo continuare a vivere in una terra dove nulla è rurale, tutto è lecito.
[1] legge 24 giugno 1974, n. 268
©R-Urbanlab_Sardigna